IDEE

La compulsory heterosexuality: quando essere lesbica non è un’opzione

CONDIVIDI

di Donatella Fiacchino

Ho 28 anni e sono lesbica.

Mi stupisco ancora un po’ quando ho l’audacia di sputare fuori quella parola. Lesbica. Sembra molle, con la sua elle, la sua bi, e poi si inasprisce all’improvviso e fa il rumore di una forchetta che cade a terra -ca! e mi turba. Nel linguaggio di tutti i giorni spesso preferisco dire gay, oppure uso l’aggettivo lesbo: porno lesbo, relazione lesbo. Il suono di quella parola, quel “lesbica” lì, mi sembra qualcos’altro, mi dà quasi l’idea di una nazionalità inesistente, di una malattia, o l’effetto di un trauma cranico. Sorrido di me stessa scrivendo queste cose, ma che sciocchezza, lo so che non è così. Però, quando ero piccola, lesbica era una categoria dei porno, era un insulto, era un sinonimo di disadattata, di frigida. E io non ero certo lesbica, lo sapevo bene, da piccola.

Io, al mio coming out, ci sono arrivata tardi, a 23 anni. Non è mai troppo tardi, certo, ma ci sono arrivata dopo due relazioni di due anni ciascuna con uomini, dopo averli presentati ai miei, dopo vacanze insieme, dopo una breve esperienza di convivenza. E anche dopo una serie di tappe personali: ero già diplomata, avevo un conto in banca, viaggiavo da sola, facevo la spesa e il bucato, vivevo all’estero. Pensavo di conoscermi.

La mia inconfessabile avversione verso il termine “lesbica” (ma non contro il suo corrispettivo inglese, “lesbian”, che mi piace molto), credo sia quindi un retaggio culturale degli anni ’90 e primi anni 2000, della cultura in cui sono cresciuta. Quando lesbica non si diceva, al massimo si sussurrava come fosse una parola sconcia, perché di lesbiche non se ne parlava. Anche perché le lesbiche non esistevano fuori dalla pornografia. O almeno, questo è quello che cercavano di farci credere.

Il fatto che l’esperienza delle lesbiche sia negata, sminuita o ridicolizzata non è un concetto nuovo: nel 1980 Adrienne Rich pubblicava il suo saggio “Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence” in cui, per la prima volta, viene esposta la teoria della compulsory heterosexuality (o comphet), che potremmo tradurre come l’eterosessualità obbligatoria.

Secondo la teoria della comphet, nella nostra società, l’esperienza omosessuale è definita come inesistente, oppure rappresentata come deviante, come una malattia mentale o come un atteggiamento compensatorio che deriva da traumi e violenza nell’infanzia o nella prima adolescenza.

La comphet descrive le donne come aventi una naturale predisposizione a provare attrazione solo e soltanto verso gli uomini, mentre viene negata la naturalità dell’attrazione di alcune donne verso altre donne. La formulazione originale della teoria si riferiva nello specifico alle donne lesbiche.

Tuttavia, potremmo estendere gli effetti della comphet a tutte le persone non-etero. La comphet, infatti, è strettamente legata al concetto di eteronormatività, per la quale si presuppone che l’eterosessualità sia la norma non solo in senso statistico (ovvero, l’orientamento più diffuso) ma anche per il senso comune, ovvero l’orientamento “normale”, erroneamente interpretato come l’unico sano. Il presupposto è che una persona sia eterosessuale, a meno che non faccia coming out. Insomma, etero fino a prova contraria.

Il concetto di coming out in sé si potrebbe definire come un derivato della comphet e dell’eteronormatività, a sua volta strumento primario del patriarcato per opprimere e marginalizzare la comunità LGBTQ. Se vivessimo in una società in cui non si assume la sessualità delle persone, se non ci fossero più pregiudizi e discriminazioni nei confronti di alcuni orientamenti sessuali, se venissero tutti validati e non considerati come uno stile di vita, una scelta, allora il coming out non sarebbe più necessario. Inoltre, non esisterebbe neanche più il rischio di subire o fare outing.

L’outing si differenzia dal coming out: una persona omosessuale fa coming out quando parla a qualcuno della propria omosessualità; una persona fa outing di una persona LGBTQ quando parla ad altri della sua sessualità senza il suo esplicito consenso. A volte può accadere di subire l’outing quando non si è ancora venuti a capo della propria sessualità. È, ad esempio, il caso di adolescenti che fanno esperienze di esplorazione sessuale e che si ritrovano etichette affibbiate da altri su una loro presunta omosessualità, quando ancora non hanno trovato un identificativo per sé. Questo può essere anche fonte di forte disagio, di ritiro sociale, in casi estremi di esclusione e di bullismo.

Dunque uno degli effetti della comphet è il binarismo della sessualità: per le persone etero, o sei come noi, o sei come loro, i diversi, quelli che deviano dal tracciato usuale. Non è necessariamente un discorso di omobifobia, o meglio, non quella violenta, punitiva, che vuole ferire. È un’omobifobia più sottile, che abita nelle sopracciglia alzate, nelle risatine, nei commenti su quanto una bella ragazza sia “sprecata per essere lesbica”. Ma è anche l’omobifobia interiorizzata.

Quando si parla di omobifobia interiorizzata ci si riferisce a due diversi, ma analoghi, processi psicologici che avvengono per alcune persone della comunità LGBTQ. Di base si tratta dell’aver assimilato l’eteronormatività durante una vita vissuta in un mondo eteronormato ed eteronormante, pertanto si applicano gli stessi modelli e aspettative della società etero anche alle persone LGBTQ. Da una parte c’è l’omobifobia rivolta verso di sé. In questo caso risulta spesso in coming out tardivi e difficili, vissuti con disagio e vergogna, a volte in crisi d’identità e in atteggiamenti autodistruttivi. Altre volte si tratta di un’insicurezza di fondo, più o meno celata, anche nelle persone che sono out da molto tempo e apparentemente a proprio agio con la sessualità.

E poi c’è l’omobifobia all’interno della stessa comunità LGBTQ. Nel corso dei decenni, infatti, all’interno del discorso queer si è insinuato un atteggiamento di quella che potremmo definire binarizzazione della sessualità, ritenendo validi solo gli orientamenti monosessuali (omo- e eterosessualità), per cui si tende a screditare la bisessualità, suggerendo che si tratti in realtà di in una fase sperimentale delle persone etero, oppure di una sorta di punto di appoggio per le persone omosessuali che gradualmente ammettono a loro stesse e al mondo di essere, sotto sotto, gay. Neanche la comunità LGBTQ è immune al patriarcato, che ha contribuito a definire la società in cui tutti noi viviamo e ci relazioniamo.

 Dunque, anche io sono cresciuta in una società patriarcale e non ne sono mai stata immune.

La mia, la nostra, è una società che mi ha insegnato che le relazioni amorose e sessuali vere, importanti, giuste, sono tra uomini e donne, e che il mio valore dipende dall’opinione degli uomini sul mio aspetto fisico, su quanto sia piacevole da avere intorno, su come sia brava a fare l’equilibrista sui tacchi e tra le insidie di una società che non è a misura di donna; una società che mi ha detto che è importante cercare la validazione di tutti, ma soprattutto degli uomini, e che la mia lista degli obiettivi dovrebbe includere anche (e soprattutto) avere un marito e dei figli.

Io mi sono ritrovata, a poco più di vent’anni, a scrollarmi quelle imposizioni una ad una, cercando di capire quali fossero i miei obiettivi reali, dato che quelli che avevo avuto fino a quel momento non erano i miei.

In questi anni, dopo il coming out con me stessa in cui mi sono detta che provavo attrazione per le donne, ho riflettuto molto su come definirmi. Ho dato risposte vaghe, contraddittorie, ho lasciato che gli altri mi definissero. Ho risposto, eluso domande, ho lasciato intendere, ho dato ragione a chi mi diceva chi fossi. Mi sono detta che questa fosse la mia forma di riappropriazione della mia identità, un’identità fluida, che andava oltre le etichette.

Poi sono venuta in contatto con il femminismo. Ho letto la critica di Lisa Diamond alla rappresentazione dell’amore tra donne nei media: secondo Diamond si tratta troppo spesso di un amore descritto come una libera scelta, come un vezzo o come una piccola trasgressione, un esperimento, un gioco.

Questo, dice Diamond, spoglia l’essere lesbica della sua componente politica, nega il fatto che l’esperienza lesbica rigetta i dogmi della società patriarcale. Le donne lesbiche devono riappropriarsi della politicizzazione del loro orientamento sessuale perché, ora lo sappiamo bene, il personale è politico.

Quindi la vera rivendicazione, per me, non è quella di fingere che non mi importi come vengo etichettata, ma di darmi un nome e di reclamare quello che per una vita ho sentito utilizzare come un insulto.

E allora si, anche se non mi piaceva come parola, anche se a volte stupisco ancora me stessa di averlo detto…  adesso dico, fiera, di essere lesbica.


CONDIVIDI